TRIBUNALE DI SORVEGLIANZA 
         per il distretto della Corte di appello di Venezia 
 
    In data 2 aprile 2019 il Tribunale di  Sorveglianza  di  Venezia,
riunito in Camera di  Consiglio  nelle  persone  dei  componenti  del
collegio: 
      1 - dott. Giovanni Maria Pavarin, Presidente; 
      2 - dott. Fabio Fiorentin, Giudice relatore; 
      3 - dott.ssa Emanuela Russo, Esperto; 
      4 - dott. Giovanni Masotto, Esperto; 
    nel procedimento di sorveglianza relativo a: 
      affidamento in prova al servizio sociale promosso  da:  B.  A.,
nato a... il..., residente a..., via... in  relazione  alla  pena  di
anni tre (residua: anni due, mesi tre e giorni dodici) di  reclusione
applicati con la sentenza della Corte di Appello di  Venezia  del  12
novembre 2015 per i reati di cui agli articoli 110, 81, comma 2, 318,
319, 319-quater e 321 c.p., commessi dal 2002 al 2011; 
    Difeso dall'avv. Bortoluzzi Tommaso del foro di Venezia; 
    Visti  gli  atti   del   procedimento   di   sorveglianza   sopra
specificato; 
    Esaminate le risultanze  delle  documentazioni  acquisite,  delle
investigazioni e degli accertamenti svolti, della trattazione e della
discussione di cui a separato processo verbale; 
 
                ha pronunciato la seguente ordinanza 
 
    1. Il condannato in epigrafe  generalizzato,  attualmente  libero
per sospensione dell'ordine di  esecuzione  ai  sensi  dell'art.  656
comma 5, c.p.p., ha formulato in via principale istanza di 
    affidamento in prova al servizio sociale in relazione  alla  pena
di anni 3 (residua: anni  2,  mesi  3  e  giorni  12)  di  reclusione
irrogatigli con la sentenza della Corte di Appello di Venezia del  12
novembre 2015 per i reati di cui agli articoli 110, 81, comma 2, 318,
319, 319-quater e  321  c.p.,  commessi  dal  2002  al  2011.  Si  e'
trattato, nella specie, di fatti di corruzione e induzione indebita a
dare o promettere utilita', poiche' il  B...  quale...,  operando  in
Comune di Venezia, per conto dei committenti corrispondeva  somme  di
denaro a pubblici  funzionari  per  agevolare  ed  accelerare  alcune
pratiche edilizie, trattenendo per se' una  percentuale  delle  somme
versate dai clienti. 
    2. La difesa allega  che  l'interessato  ha  trascorso  un  lungo
periodo sottoposto a regime cautelare, dapprima carcerario  e  quindi
domiciliare,  mantenendo  sempre   un   comportamento   regolare   ed
osservante delle prescrizioni; che ha risarcito gli enti territoriali
- pur non costituiti parti civili - ai quali appartenevano i pubblici
funzionari coinvolti (Comune di Venezia  e  Regione  Veneto)  con  la
somma di euro  125.000,  versata  prima  dell'apertura  del  giudizio
abbreviato; che ha versato ulteriori 3.000 euro a titolo di donazione
all'Associazione  «Libera»;  che  le  persone  offese  del  reato  di
concussione (originariamente  contestato  all'istante)  non  si  sono
costituite  parti  civili  ne'  hanno  altrimenti  avanzato   pretese
risarcitorie; che dalla data di commissione dei reati e fino ad  oggi
il soggetto - che attualmente opera in  Venezia  nell'ambito  di  uno
studio di architettura come coordinatore di cantiere  e  coadiuva  la
moglie nella gestione di alcune strutture  ricettive  alberghiere  in
citta' - ha sempre osservato regolare condotta; che domicilia con  la
famiglia, i cui componenti sono esenti da pregiudizi penali, al  Lido
di Venezia, in abitazione di proprieta'; che ha tenuto  una  condotta
collaborativa con gli inquisenti, rilasciando dichiarazioni  auto  ed
etero  accusatorie  rese  nel  corso  del  giudizio,  che  gli  hanno
consentito, tra l'altro, di accedere prima ai domiciliari e poi  alla
ancor meno afflittiva cautela dell'obbligo di presentazione alla p.g. 
    Con memoria integrativa del 15 marzo 2019,  il  difensore  prende
posizione sulle ricadute dell'entrata in  vigore  -  nelle  more  del
presente procedimento - della legge 9 gennaio 2019 n. 3, a cui  mente
l'istanza di affidamento in prova al  servizio  sociale  risulterebbe
affetta   da   inammissibilita'   sopravvenuta,   in    difetto    di
collaborazione  dell'interessato  con  la  giustizia.   Per   effetto
dell'art. 1, comma 6, lett. b), della ricordata novella  legislativa,
i delitti di cui agli articoli 318, 319, 319-quater e 321  c.p.,  dei
quali il B...  e'  stato  giudicato  colpevole  con  la  sentenza  di
condanna in esecuzione, sono stati inseriti nel «catalogo» dei  reati
che precludono in termini assoluti - salva la collaborazione  con  la
giustizia, effettiva (art. 58-ter ord. penit. o art. 323-bis c.p.), o
«impossibile»  ai  sensi  del  comma  1-bis,  dell'art.  4-bis  della
medesima  legge)  -  l'accesso  ai  benefici  penitenziari  (tra  cui
l'affidamento in prova al servizio  sociale  richiesto  nel  presente
procedimento). 
    3.1. Al riguardo, la difesa ritiene, innanzitutto, che alla  luce
di una  interpretazione  «convenzionalmente  orientata»  fondata  sul
principio affermato dall'art. 7  CEDU  ed  affermato  altresi'  dalla
giurisprudenza europea (viene  citata  la  sentenza  della  Corte  di
Strasburgo 21 ottobre 2013, Del Rio Prada c/ Spagna), le disposizioni
che regolano  la  fase  esecutiva  della  pena  assumerebbero  natura
sostanziale e non processuale, del che dovrebbe valere, nel  caso  di
specie, il principio di' irretroattivita'  in  malam  partem  sancito
dall'art.  2  c.p.,  trattandosi  di  esecuzione  penale  relativa  a
fatti-reato commessi anteriormente al vigore  della  disciplina  piu'
severa introdotta dalla «legge spazzacorrotti». 
    3.2. Qualora non si condividesse  tale  ermeneusi,  il  difensore
ritiene che, anche accedendo alla  tesi  della  natura  «processuale»
delle  norme  di  matrice  esecutiva  e  penitenziaria,  la  corretta
applicazione della regola tempus regit actum dovrebbe necessariamente
condurre alla medesima soluzione di non ritenere applicabili al  caso
in esame le nuove piu' restrittive disposizioni, considerando che  la
sentenza di condanna de qua e' divenuta definitiva il 12 ottobre 2017
e  che  il  relativo  ordine  di  esecuzione  e'  stato   emesso   (e
contestualmente sospeso) anteriormente alla  data  di  vigenza  della
legge n. 3/2019 (31 gennaio 2019), cosi' che esso non  potrebbe  piu'
essere revocato proprio perche' tempus regit actum. La stessa istanza
di applicazione della misura alternativa, dalla quale si e' originato
il presente procedimento, e' stata  avanzata  prima  dell'entrata  in
vigore della normativa di sfavore. Si tratterebbe, in definitiva,  di
un procedimento incardinatosi  antecedentemente  alla  vigenza  delle
piu' severe disposizioni introdotte con vigenza  31  gennaio  2019  e
pertanto ad esso tale piu' aspra disciplina non potrebbe applicarsi. 
    3.3. Se anche tale impostazione  non  fosse  condivisa,  varrebbe
comunque - ad avviso del difensore - il principio di «non regressione
trattamentale» affermato dalla Corte costituzionale con  la  sentenza
n. 137/1999, in forza  del  quale  eventuali  modifiche  peggiorative
sopravvenute che rendono piu' difficile  o  precludono  l'accesso  ai
benefici penitenziari non possono trovare applicazione nei  confronti
di coloro  che,  alla  data  di  vigenza  di  tali  piu'  restrittive
disposizioni, abbiano gia' maturato i  requisiti  per  accedere  alle
misure  risocializzanti,  avendo  gia'   raggiunto   un   grado   di'
rieducazione compatibile con i detti benefici extramurari. 
    Sarebbe,  invero,  ingiustificata   alla   luce   del   principio
rieducativo scolpito nell'art. 27, comma 3, Cost.,  ogni  preclusione
normativa ai benefici penitenziari  non  addebitabile  alla  condotta
colpevole dell'interessato. Piu' recentemente, tale assunto e'  stato
ribadito dal Giudice delle leggi con la sentenza n. 149/2018  che  ha
riaffermato il principio della non  sacrificabilita'  della  funzione
rieducativa della pena  sull'altare  di  ogni  altra  pur  legittima,
finalita' della medesima (in primis quella generalpreventiva). 
    Tale evocato principio opererebbe anche  nella  fattispecie,  che
pure coinvolge un soggetto  libero,  poiche'  -  cosi'  argomenta  la
difesa  -  nel  caso  di  soggetti  destinatari   della   sospensione
dell'ordine di esecuzione ai sensi dell'art. 656, comma 5, c.p.p., il
dies a quo del percorso rieducativo si situerebbe nel momento in  cui
il condannato «libero sospeso» presenta al Tribunale di sorveglianza,
nei trenta giorni a sua disposizione, l'istanza per la concessione di
iena misura alternativa alla detenzione  (art.  656,  commi  5  e  6,
c.p.p.), poiche' sarebbe a  partire  da  tale  atto  che  la  persona
condannata  viene  presa  in  carico  dall'UEPE   ed   entra   quindi
nell'orbita dell'esecuzione  penale  esterna  (nel  caso  di  specie,
l'interessato ha presentato la domanda di  affidamento  in  prova  al
servizio sociale il giorno 10 maggio 2018). 
    Il difensore puntualizza, inoltre, come, al momento di entrata in
vigore della legge n. 3/2019, il B... avesse gia' ampiamente  avviato
il percorso rieducativo, avendo,  fin  dalle  primissime  fasi  delle
indagini a suo carico, avviato  un  percorso  di  collaborazione  con
l'autorita' giudiziaria e di rivisitazione critica, ottenendo per  il
proprio atteggiamento improntato  a  collaborazione  con  l'autorita'
giudiziaria l'«ammorbidimento» delle misure cautelari a suo carico e,
successivamente, il riconoscimento della liberazione  anticipata  per
tali periodi di custodia cautelare. E'  evidente  quindi,  ad  avviso
della  difesa,  che  l'interruzione  di  tale  percorso  rieducativo,
destinato «naturalmente» a sfociale nell'applicazione di  una  misura
alternativa, si palesa come ingiustificata, cosi' contrastando con le
coordinate costituzionali e convenzionali. 
    3.4. Se, tuttavia, neppure questa prospettazione fosse  condivisa
dal Collegio,  il  difensore  chiede  che  il  Tribunale  proceda  al
preliminare riconoscimento, in capo all'interessato,  della  avvenuta
positiva collaborazione  con  la  giustizia  ovvero  all'accertamento
della sussistenza, nel  caso  in  esame,  della  collaborazione  c.d.
«impossibile».  Allega,  al  proposito,  la  difesa  che  il  proprio
assistito   ha   reso   dichiarazioni   ampiamente   confessorie   ed
eteroaccusatorie nel corso del giudizio, che  gli  hanno  consentito,
tra l'altro,  di  ottenere  la  progressiva  mitigazione  del  regime
cautelare. 
    Tale condotta, che pure non e' valsa al B... per  la  concessione
della speciale attenuante di cui all'art 323-bis c.p., ha,  peraltro,
dato luogo a un ulteriore procedimento penale, al cui esito  egli  e'
stato condannato. La difesa assume che l'interessato avrebbe prestato
all'autorita'  procedente  tutte  le  informazioni  di  cui  era   in
possesso: pur non essendo cio' valso a consentire all'odierno istante
di beneficiare dell'attenuante a effetto speciale di cui al comma  2,
art.  323-bis,  c.p.,  nondimeno  tale  condotta  collaborativa   ben
potrebbe   essere   valutata   nella   presente    sede    ai    fini
dell'accertamento,  in  capo  al  condannato,  della   collaborazione
positiva o, quantomeno, «impossibile» (comma 1-bis, art. 4-bis,  ord.
penit). 
    3.5. In via ulteriormente subordinata, la difesa sollecita questo
Tribunale a sollevare la  questione  di  legittimita'  costituzionale
dell'art. 1, comma 6, lett. b), legge 9 gennaio 2019, n.  3,  che  ha
incluso  i  reati  contro  la  Pubblica  Amministrazione  tra  quelli
«ostativi» all'applicazione di alcuni benefici penitenziari e  misure
alternative alla detenzione, ai sensi dell'art. 4-bis, comma 1, legge
26 luglio 1975 n. 354, per ritenuto contrasto con gli articoli 3,  25
comma 2, 27 comma 3 e 117 Cost., 7  CEDU,  nella  parte  in  cui  non
prevede   un   regime   intertemporale,    limitando    pro    futuro
l'applicabilita' della disciplina di nuovo conio  introdotta  con  la
legge n. 3/2019. 
    La quaestio e' prospettata con riguardo ad una  articolata  serie
di   motivi:    innanzitutto,    la    disposizione    dubitata    di
incostituzionalita'  violerebbe  il  canone  della  ragionevolezza  e
dunque contrasterebbe con l'art. 3 Cost., dal momento  che  le  nuove
fattispecie delittuose in materia di reati contro  la  P.A.  inserite
nel «catalogo» di delitti  ostativi  alla  concessione  dei  benefici
penitenziari non sarebbero omogenee a quelle gia' esistenti sotto  il
profilo della presunzione di pericolosita' intrinseca  in  capo  agli
autori di detti illeciti, cosi' violando anche l'art.  27,  comma  3,
Cost., nella  misura  in  cui  la  disposizione  censurata  introduce
un'ingiustificata cesura nel trattamento rieducativo non correlata ad
un comportamento colpevole del condannato. 
    Un  secondo  profilo  di  incostituzionalita'  sarebbe,  inoltre,
costituito dall'assenza di disposizioni di diritto transitorio. 
    Un terzo motivo di  contrasto  con  i  canoni  costituzionali  e'
prospettato dalla difesa sulla  premessa  che  la  giurisprudenza  di
legittimita' attribuisce  alle  disposizioni  che  regolano  la  fase
dell'esecuzione penale e penitenziaria natura  processualistica,  che
ne sottrae la dinamica al  divieto  di  applicazione  retroattiva  in
malam partem sancito dall'art. 25, comma 2, Cost. e dall'art. 2 c.p.,
in favore del principio tempus regit actum, operando dunque anche  in
relazione a condanne poste in  esecuzione  per  fatti-reato  commessi
anteriormente alla vigenze delle  modifiche  peggiorative  (Sez.  Un.
30.05.06, n. 24561, Aloi, Rv. 233976; Cass., I,  3.02.16,  n.  37578;
Cass., I, 5.02.13, n. 11580). Tale  lettura  formalistica  contrasta,
tuttavia, con l'approccio sostanzialistico  seguito  dalla  Corte  di
Strasburgo, che amplia la «materia penale», ricomprendendovi  settori
dell'ordinamento prima ad essa ritenuti estranei, estendendo ad  essi
alcuni fondamentali principi, tra cui quello  del  nulla  poena  sine
lege iscritto nell'art. 7 CEDU, ritenendo che soggiacciano al divieto
di retroattivita' (anche) le modifiche peggiorative  delle  modalita'
esecutive della pena qualora incidano in maniera significativa  sulla
pena da scontare (Corte edu,  Grande  Chambre,  21.10.2013,  Del  Rio
Prada c. Spagna). 
    Alla luce di tale indirizzo, autorevolmente espresso dalla  Corte
alsaziana  nella  sua  piu'  alta  composizione,  pertanto,   sarebbe
ricompresa nella «materia penale» coperta dal divieto di applicazione
retroattiva in pejus la  disciplina  delle  misure  alternative  alla
detenzione incisa dall'art. 1, comma 6, lett. b),  legge  n.  3/2019.
Quest'ultima disposizione, infatti, connota il regime esecutivo delle
condanne per i delitti di corruzione ivi indicati, trasformandolo  da
pena detentiva da scontare - ricorrendo  i  presupposti  -  in  forma
alternativa alla detenzione  a  pena  da  espiare  sempre  in  regime
detentivo ordinario (salva la collaborazione con la giustizia), cosi'
violando gli articoli 117 Cost., art. 7 CEDU. 
    4. II Tribunale rileva preliminarmente che la condanna  posta  in
esecuzione  a  carico  dell'interessato  porta  una  pena   detentiva
relativa a delitti che - per effetto dell'art. 1, comma 6,  lett.  b)
della legge 9 gennaio 2019, n. 3 («Misure per il contrasto dei  reati
contro  la,  pubblica  amministrazione,   nonche'   in   materia   di
prescrizione del reato e in materia  di  trasparenza  dei  partiti  e
movimenti politici», c.d.  «legge  spazzacorrotti»),  vigente  al  31
gennaio 2019 - sono stati inseriti nei «catalogo» dei reati del comma
1, art. 4-bis, della legge 26 luglio 1975, n. 354. 
    Con una ratio ispiratrice palesemente sospinta  da  finalita'  di
contrasto e repressione di  episodi  corrottivi  che  coinvolgono  la
pubblica amministrazione e tesa  a  potenziare  l'effetto  persuasivo
delle pene applicate in relazione agli stessi, la «nuova» formula del
primo comma dell'art. 4-bis ord. penit. include: il peculato, escluso
quello d'uso (art. 314, comma 1,  c.p.),  la  concussione  (art.  317
c.p.),  la  corruzione  impropria  (art.  318  c.p.),  la  corruzione
propria,  semplice  e  aggravata  (art.  319  e  319-bis  c.p.),   la
corruzione  in  atti  giudiziari  (art.  319-ter  c.p.),   l'indebita
induzione a dare o promettere utilita'  (art.  319-quater,  comma  1,
c.p.), la corruzione di incaricato di  pubblico  servizio  (art.  320
c.p.), la corruzione  attiva  (art.  321  c.p.),  l'istigazione  alla
corruzione (art. 322 c.p.), il peculato, la concussione,  l'induzione
indebita dare o promettere utilita', la  corruzione  e  l'istigazione
alla corruzione di membri della Corte penale internazionale  o  degli
organi e funzionari dell'Unione  europea  e  di  Stati  esteri  (art.
322-bis c.p.). 
    Con  l'eccezione  della  liberazione  anticipata,  tali   ipotesi
delittuose costituiscono pertanto attualmente altrettante fattispecie
«assolutamente ostative» alla concessione dei  benefici  penitenziari
(tra cui l'affidamento  in  prova  ai  servizio  sociale),  salva  la
collaborazione positiva con la giustizia da parte dell'interessato ai
sensi dell'art. 58-ter ord. penit. e dell'art. 323-bis c.p. e  salva,
altresi',   la'   ricorrenza   delle   ipotesi   di    collaborazione
«inesigibile» di cui al comma 1-bis  dell'evocato  art.  4-bis  della
legge penitenziaria. 
    5.  Con  riguardo  alle  questioni  dedotte  dalla   difesa   del
condannato, necessariamente  preliminari  all'esame  del  merito,  il
Collegio  ritiene,  innanzitutto,  che  non  possa  essere  condiviso
l'assunto per cui la  gia'  intervenuta  sospensione  dell'ordine  di
esecuzione ai sensi del comma 5 dell'art.  656  c.p.p.  in  relazione
alla condanna de  qua  abbia  sottratto  l'intera  vicenda  esecutiva
all'applicazione  della  piu'   severa   disciplina   medio   tempore
introdotta, atteso il duplice rilievo che il diritto vivente  non  e'
affatto consolidato nel ritenere - in questa ipotesi  -  preclusa  al
pubblico  ministero  la  revoca  dell'ordine  di  esecuzione  sospeso
(registrandosi anzi, su tale controverso  profilo  operativo,  prassi
affatto difformi  sul  territorio  nazionale);  ne',  del  resto,  e'
possibile considerare unitariamente la fase procedimentale di impulso
del P.M. governata dall'art. 656 c.p.p., e quella  che  si  incardina
successivamente  (e  solo  eventualmente,   nel   caso   di   istanza
dell'interessato  o  del  suo  difensore)  avanti  al  Tribunale   di
sorveglianza, per ritenere che  -  tempus  regit  actum  -  eventuali
modifiche peggiorative introdotte  successivamente  all'emissione  (e
contestuale  sospensione)  dell'ordine  di  esecuzione  non   possano
riverberarsi nell'instaurato procedimento  camerale  di  sorveglianza
relativo alla decisione sulla istanza di misura alternativa  relativa
alla pena provvisoriamente sospesa. 
    La fase procedimentale della vicenda esecutiva che  si  apre  con
l'emissione da parte del P.M. dell'ordine  di  esecuzione  e  la  sua
contestuale sospensione e', infatti, destinata a completarsi o con la
revoca della sospensione stessa in caso di  inerzia  del  condannato,
ovvero,  nel  caso  in  cui  questi  presenti  un'istanza  di  misura
alternativa,  con  la  trasmissione  della  medesima  al   competente
Tribunale di sorveglianza. 
    Tale  passaggio  procedimentale  scandisce  l'avvio  della   fase
propriamente giurisdizionale della vicenda esecutiva, nella quale  si
dispiega l'apprezzamento discrezionale del giudice di sorveglianza in
relazione ai presupposti e alle  condizioni  che  consentono;  o  no,
l'accesso del  condannato  a  forme  di  esecuzione  qualitativamente
diverse  dalla  pena  detentiva  carceraria,  costituendo  una   fase
procedimentale affatto diversa e distinta dalla  precedente  sia  dal
punto di vista degli organi giudiziari coinvolti che sotto  l'aspetto
logico-giuridico  e  della  disciplina  processuale  applicata.  Tale
ricostruzione trova solida base nella giurisprudenza di  legittimita'
(Sez. Un., sent. n. 27919/2011), che afferma il 'principio per cui la
norma sopravvenuta  non  Possa  operare  retroattivamente,  posta  la
regola che «ad ogni atto corrisponde una sola  norma»,  ed  e'  stato
recentemente  ripreso  da  un  indirizzo  di  merito  (ordinanza  del
Tribunale di Napoli, Sez. VII, del 28 febbraio 2019) che  -  pur  non
contestando l'assunto  interpretativo  tradizionale  di  attribuzione
della  natura  processuale  alle  norme  sull'esecuzione   penale   e
penitenziaria  -  ha  affermato  il  principio  che  gli  ordini   di
esecuzione gia' sospesi anteriormente  all'entrata  in  vigore  della
legge n. 3/2019  non  possono  essere  revocati  in  quanto  la  loro
efficacia si consuma con la sospensione. 
    Deriva da  tale  cornice  giuridico  -  normativa  che  eventuali
modifiche normative o overruling giurisprudenziali  che  intervengano
successivamente alla conclusione  della  fase  di  impulso  governata
dall'art. 656 c.p.p., pur non inficiando la legittimita' e  validita'
degli atti compiuti nella detta fase  (tempus  regit  actum),  devono
necessariamente   essere   valutati   in   sede    di    procedimento
giurisdizionale innanzi al giudice di sorveglianza. In tale senso e',
del resto, la giurisprudenza della Cassazione (emblematica ex  multis
e' la decisione di Cass., Sez. 1, sent.  n.  52578  dell'11  novembre
2014 Cc. (dep. 18 dicembre  2014),  Rv.262199-01,  che  ha  applicato
direttamente le modifiche introdotte nella disciplina dell'espulsione
dello straniero  dal  territorio  dello  Stato,  ritenendo,  appunto,
immediatamente applicabili a tutti i rapporti esecutivi non  esauriti
le disposizioni normative medio tempore intervenute). 
    6. Del pari problematico appare, al Tribunale, invocare nel  caso
in esame il principio di matrice costituzionale che salvaguarda,  nel
caso di  modifiche  peggiorative  sopravvenute,  la  gia'  realizzata
progressione  trattamentale  del  condannato,  vietando  l'immotivata
regressione  qualora   non   dovuta   ad   una   condotta   colpevole
dell'interessato. Nella fattispecie si  tratta,  invero,  di  persona
che, al momento dell'entrata in vigore della  disciplina  di  maggior
rigore contenuta nella legge n. 3/2019, non si trovava sottoposta  al
trattamento penitenziario cui fa riferimento la Corte costituzionale,
laddove   si   riferisce   alla   «progressivita'   trattamentale   e
flessibilita' della pena» (Corte cost., sentenza n. 255 del 2006;  in
senso conforme, sentenze n. 257 del 2006, n. 445 del 1997  e  n.  504
del 1995),  ovvero  al  graduale  reinserimento  del  condannato  nel
contesto sociale durante l'intero  arco  dell'esecuzione  della  pena
(Corte cost., sent. 149 del 2018); ne' risulta convincente  l'assunto
che ['interessato fosse gia'  coinvolto  in  un  rapporto  di  natura
trattamentale  con  l'UEPE  (in  questo  senso  appare,  invero,  non
condivisibile  l'assunto  che  individua  dies  a  quo  del  percorso
rieducativo  nel  giorno   di   presentazione   della   domanda   per
l'applicazione di una misura alternativa alla detenzione). 
    Va osservato, al proposito, che la sentenza costituzionale n. 445
del 1997, nel riferirsi al trattamento penitenziario eventualmente in
corso, sembra implicare necessariamente un effettivo e non  episodico
rapporto con  gli  organi  della  esecuzione  (UEPE  o  equipe  degli
educatori) laddove afferma che «quando la condotta penitenziaria  del
detenuto ha consentito di accertare il raggiungimento di  uno  stadio
del percorso rieducativo adeguato  al  beneficio  da  conseguire,  la
innovazione  legislativa  che  vieta   la   concessione   di   misure
alternative alla detenzione finisce per atteggiarsi alla  stregua  di
un  meccanismo  a  connotazioni  ablative,  riproducendo  cosi'  quei
caratteri di  «revoca»  non  fondata  sulla  condotta  colpevole  del
condannato che questa Corte ha gia' censurato e sulla medesima  linea
si pone il successivo arresto n. 137/1999 che sviluppa  con  riguardo
ai permessi premio i medesimi principi gia' affermati dalla pronuncia
n. 445/1997. 
    Anche a ritenere che principio di non  regressione  trattamentale
possa estendersi  ai  condannati  liberi,  dei  resto,  non  sembrano
sussistere nella fattispecie quegli elementi che gia' consentirebbero
di formulare  una  valutazione  sicuramente  positiva  dei  progressi
trattamentali messi a segno dall'interessato, attesa la  recentissima
segnalazione che ha attinto il B... per violazione dell'art. 388 c.p.
(commesso, nell'ipotesi accusatoria, il 23 dicembre 2018). 
    7. Quanto alla  istanza  di  accertamento,  della  collaborazione
positiva con la giustizia ovvero della collaborazione  «impossibile»,
nei  termini  sopra  precisati,  che  consentirebbe  di  superare  lo
sbarramento della preclusione in  esame,  il  Tribunale  ritiene  che
l'interessato non abbia collaborato con  l'autorita'  giudiziaria  in
termini  di  efficacia  tale  da  soddisfare  i  requisiti   indicati
nell'art. 58-ter, ord. penit., ovvero quelli di cui all'art. 323-bis,
comma 2, c.p. 
    Nella sentenza della Corte di  Appello  di  Venezia,  invero,  si
afferma  esplicitamente  che  sussistevano   certamente   conseguenze
ulteriori dei reati commessi che l'interessato non  ha  provveduto  a
(cercare di) elidere: la Corte di appello, pur prendendo atto che  il
soggetto aveva versato 100.000 euro al comune  di  Venezia  e  25.000
euro alla regione Veneto a  titolo  risarcitorio,  non  ha,  infatti,
riconosciuto al condannato la speciale attenuante  di  cui  al  n.  6
dell'art. 62 c.p., perche' egli non aveva risarcito le persone offese
del reato di concussione (in prime cure ascrittogli), il risarcimento
dei danni era stato  solo  parziale  anche  a  fronte  degli  ingenti
guadagni   realizzati   dall'interessato   con   alcune    operazioni
immobiliari favorite dall'attivita' delinquenziale posta in essere e,
in definitiva, assumendo che le dazioni del B... fossero « (...) poca
cosa rispetto  ai  profitti  conseguiti  dai  reati,  se  si  tengono
presenti i beni immobili acquistati e i redditi dichiarati  dal  B...
elencati nella prima sentenza alle pagine 6 e 7 alle quali si  rinvia
integralmente» (sent. Corte Appello di Venezia, cit., p. XCVI). 
    Piu'  oltre,  la  Corte  nega,   altresi',   al   condannato   il
riconoscimento dell'attenuante di cui all'art 323-bis c.p., poiche' «
(...) in particolare, con riferimento alla individuazione degli altri
responsabili va richiamato che dalle intercettazioni  eseguite  prima
delle due prime ordinanze emesse il 21 marzo 2011  nei  p.p.  8115/10
RGNR e 1009/11 RGNR erano gia' stati  identificati  tutti  gli  altri
autori dei reati, che ragionevolmente il B... non avrebbe ammesso gli
addebiti se non fossero  state  sequestrate  rubriche  e  agende  con
testualmente   all'esecuzione   delle   misure   cautelari   e    che
dall'esistenza di questa riservata contabilita' era emersa prova gia'
durante le intercettazioni. Da ultimo, non si e'  adoperato  al  fine
del  rintraccio   dell'agenda   del   2008.   Le   ammissioni   negli
interrogatori sono state parziali non avendo il  B...  contribuito  a
svelare i dettagli delle condotte degli altri imputati pertinenti  ai
capi in cui si contestavano specifiche  condotte  ed  interventi  dei
pubblici ufficiali, funzionari e dipendenti.» (sent. Corte Appello di
Venezia, cit., p. XCVI). 
    Alla  luce  di  tale  quadro  emerge   dunque   che   in   favore
dell'interessato   non   puo'   riconoscersi   l'accertamento   della
collaborazione prestata ai sensi degli articoli 58-ter, ord. penit. o
323-bis,  c.p.,  poiche'   le   ammissioni   e   dichiarazioni   rese
dall'odierno istante sono state solo parziali, sono residuati profili
non  accertati  delle  condotte  criminose  realizzate  dagli   altri
imputati nella complessa vicenda corruttiva ed egli non ha  agito  se
non in modesta misura per elidere le conseguenze  dannose  dei  reati
commessi. Per tali motivi, non vi sono neppure i presupposti  per  il
riconoscimento  della  «impossibilita'»  della   collaborazione   per
l'integrale  accertamento  dei  fatti,  dal  momento  che   il   B...
sicuramente avrebbe potuto  contribuire  a  chiarire  gli  ulteriori,
numerosi profili fattuali  che  sono  rimasti  tuttora  oscuri  delle
complesse  vicende  che  lo  hanno  visto  protagonista   dei   fatti
delittuosi descritti nella sentenza della Corte di appello veneziana. 
    8. Da quanto sopra consegue che la  concessione  dell'affidamento
in  prova  al  servizio  sociale,  appare  preclusa   dalla   attuale
formulazione dell'art.  4-bis,  comma  1,  ord.  penit.,  vigente  al
momento della presente decisione. 
    Nell'intento  di  superare  tale  sbarramento,   la   difesa   ha
affacciato una  lettura  «convenzionalmente  orientata»  della  sopra
richiamata  disposizione  penitenziaria,   assumendo   le   modifiche
restrittive introdotte dalla legge n. 3/2019 non applicabili  in  via
retroattiva,  in  mancanza   di   norme   di   diritto   transitorio,
prospettando al Tribunale la natura «sostanziale» e non «processuale»
della norma di nuova introduzione, e chiedendo, in  applicazione  dei
principi espressi nell'art. 25 Cost., nell'art. 2 c.p. e nell'art.  7
CEDU (quest'ultimo letto alla luce della giurisprudenza europea),  la
declaratoria di irretroattivita' della legge penale piu'  sfavorevole
in  relazione  alle  condanne  per  fatti-reato  commessi  in   epoca
antecedente  all'entrata  in   vigore   della   normativa   deteriore
costituita, in questo  caso,  dalla  modifica  dell'art.  4-bis  ord.
penit., intervenuta ad opera dell'art. 1, comma 6, lett. b), legge n.
3/2019). 
    9. Riguardo a tale profilo, il Collegio e' ben consapevole che la
tesi secondo cui le disposizioni normative che disciplinano  la  fase
dell'esecuzione penitenziaria e, segnatamente,  quelle  che  regolano
presupposti e condizioni di  accesso  alle  misure  alternative  alla
detenzione, hanno natura sostanziale e il relativo  corollario  della
inapplicabilita'    di    disposizioni    peggiorative     introdotte
successivamente alle condanne per fatti-reato commessi anteriormente,
pur trovando ormai ampio consenso nella piu'  autorevole  dottrina  e
riscontro  in  qualche  indirizzo  -  anche  recentissimo   -   della
giurisprudenza  di   merito   non   e',   invece,   condiviso   dalla
giurisprudenza   di'   legittimita'.   Quest'ultima,   infatti,   con
orientamento costante, consolidatosi a  partire  dalla  sopra  citata
pronuncia delle Sezioni unite (n. 24561/2006, ric. Aloi, Rv. 233976),
ha  affermato  il   principio   che   le   disposizioni   concernenti
l'esecuzione delle  pene  detentive  e  le  misure  alternative  alla
detenzione, non riguardando l'accertamento del reato e  l'irrogazione
della pena ma soltanto le modalita' esecutive della stessa, non hanno
carattere di norme penali sostanziali e pertanto, «in assenza di  una
specifica disciplina transitoria», soggiacciono al principio  «tempus
regit actum» e non alle regole dettate in materia di  successione  di
norme penali  nel  tempo  dall'art.  2  c.p.  e  dall'art.  25  della
Costituzione, con la conseguenza che «un'eventuale modifica normativa
che  introduca  una  piu'   severa   disciplina   e'   immediatamente
applicabile a  tutti  i  rapporti  esecutivi  che  non  siano  ancora
esauriti» (Cass., Sez. 1, n. 46649 del 11/11/2009, Nazar, Rv. 245511;
Cass., Sez. 1, n. 11580 del 05/02/2013, Schirato, Rv. 255310). 
    Siffatta linea interpretativi e' stata seguita  dalla  Cassazione
con riguardo all'introduzione del divieto di sospensione  dell'ordine
di esecuzione di cui alla lett. c) dell'art. 656, comma 9, c.p.p. per
effetto della n. 251 del 2005 (Cass., Sez.  1,  sent.  n.  33062  del
19/09/2006, Cc, dep. 04/10/2006, Rv. 234384; conforme a  Cass.,  Sez.
I,  n.  25113  e   n.   29508/2006);   in   materia   di   estensione
dell'espulsione  dello  straniero  come   misura   alternativa   alla
detenzione,  prevista  dall'art.  16,  comma  quinto,   del   decreto
legislativo 25 luglio 1998, n. 286, operata con l'art.  6,  comma  1,
lett. a) del decreto-legge 23 dicembre 2013, n. 146, convertito nella
legge 21 febbraio 2014, n. 10 (Cass., Sez.  1,  sent.  n.  52578  del
11/11/2014 Cc.  (dep.  18/12/2014),  Rv.262199  -  01);  in  tema  di
aggravante  ad  effetto  speciale  di  cui  all'art.  628,  comma  3,
3-quinquies, c.p., che impedisce, ai sensi degli articoli 4-bis, ord.
penit., e 656, comma 9, c.p.p., la sospensione dell'esecuzione  della
pena, anche se la circostanza sia entrata in  vigore  successivamente
alla commissione del fatto, «avendo essa natura mista in forza  della
quale non produce solo effetti sostanziali,  soggetti,  pertanto,  al
principio di irretroattivita', ma anche processuali, come il  divieto
di concessione di benefici penitenziari.» (Cass., Sez.  1,  sent.  n.
18496 del 31/01/2018 Cc., dep. 27/04/2018, Rv. 273070 - 01). 
    Piu'  recentemente,  tuttavia,  una  pronuncia  di   legittimita'
(Cass., Sez. 6, 14 marzo 2019, n. 12541, ric. Ferraresi),  ha  aperto
una breccia in tale ermeneutica, fino ad oggi inscalfibile, prendendo
le distanze da quella posizione, definita da autorevole dottrina come
frutto  di  un  criticabile   «bizantinismo   classificatorio»,   per
allinearsi   all'approccio    «sostanzialistico»    adottato    dalla
giurisprudenza della Corte EDU sulla «materia penale». La  Cassazione
ha richiamato, precisamente, la decisione  della  Corte  edu,  Grande
Chambre, 21 ottobre 2013, Del Rio Prada c. Spagna,  che  ha  ritenuto
violato l'art. 7 par. 1 della CEDU da  parte  del  governo  spagnolo,
sotto il profilo  del  «principio  di  affidamento»  di  una  persona
detenuta rispetto ad un mutamento in  pejus  introdotto  per  effetto
della  applicazione  giurisprudenziale   («doctrina   Parot»)   nella
disciplina relativa  ad  un  istituto  spagnolo  affine  alla  nostra
liberazione  anticipata,  affermando  che,  ai  fini   del   rispetto
dell'evocato  principio  di  affidamento  del  condannato  circa   la
«prevedibilita' della sanzione penale», occorre  avere  riguardo  non
solo alla pena irrogata, ma anche alla sua concreta  esecuzione  (nel
caso  esaminato  dalla  Corte  europea,  l'istituto  dell'ordinamento
iberico aveva diretta incidenza sulla durata della pena da espiare). 
    Facendo  applicazione  di  tale  criterio  sostanzialistico,   la
Cassazione e' giunta a ritenere, con riferimento  alle  modificazioni
in pejus introdotte dalla legge n. 3/2019 «(...)  non  manifestamente
infondata la prospettazione difensiva secondo  la  quale  l'avere  il
legislatore cambiato in itinere le "carte in tavola" senza  prevedere
alcuna norma transitoria presenti tratti di  dubbia  conformita'  con
l'art. 7 CEDU e, quindi, con l'art. 117 Cost., la' dove  si  traduce,
per il [ricorrente], nel  passaggio  -  "a  sorpresa"  e  dunque  non
prevedibile - da una sanzione patteggiata "senza assaggio di pena" ad
una sanzione con necessaria incarcerazione, giusta il  gia'  rilevato
operare del combinato disposto degli articoli 656, comma 9 lett.  a),
codice procedura penale e 4-bis ord. penit.», ma  non  sollevando  la
relativa questione dal momento che essa  «(...)  afferisce  non  alla
sentenza  di  patteggiamento  oggetto  del   presente   ricorso,   ma
all'esecuzione della pena applicata con la stessa sentenza, dunque ad
uno snodo processuale diverso  nonche'  logicamente  e  temporalmente
successivo, di talche' ai fini della decisione di  questa  Corte  non
rileva, potendo se del caso essere riproposta in sede di incidente di
esecuzione» ( Cass., Sez. 6, 14.03.2019, n. 12541, cit.). 
    Sulle  medesime   coordinate   interpretative,   sensibili   alla
necessita'  costituzionale  di   una   lettura   delle   disposizioni
dell'ordinamento    interno    conformi    ai    principi     vigenti
nell'ordinamento convenzionale europeo si  collocano  -  come  si  e'
ricordato  -  alcuni  recentissimi  arresti  di   merito,   tra   cui
l'ordinanza del GIP di Como dell'8  marzo  2019  che  -  in  sede  di
incidente di esecuzione avverso un  ordine  di  esecuzione  pena  non
sospeso -  ha  adottato  una  interpretazione  conforme  ai  principi
convenzionali, annullando il provvedimento impugnato,  ritenendo  non
necessario adire il Giudice  delle  leggi  attraverso  la  rimessione
della questione alla Corte costituzionale. 
    Secondo  il  giudice  Iariano,  invero,   «quelle   che   vengono
considerate  norme  meramente  processuali,  perche'  attinenti  alle
modalita' di  esecuzione  della  pena,  sono  in  realta'  norme  che
incidono sostanzialmente  sulla  natura  afflittiva  della  pena»  e,
pertanto, una  loro  eventuale  applicazione  retroattiva  «significa
violare l'art. 117 Cost., integrato dall'art. 7 CEDU nonche' gli art.
25,  comma  2  Cost.  e  l'art.  2  c.p.,  norme  il  cui  raggio  di
operativita' non puo' non estendersi a tutte le disposizioni  che,  a
prescindere dalle etichette, abbiano, come nel  caso  di  specie,  un
contenuto afflittivo o intrinsecamente punitivo». 
    10. Questo Tribunale, condividendo nelle sue linee essenziali  il
percorso  logico-giuridico  seguito  sia  dalla  Cassazione  con   la
sentenza n. 12541/2019, sia  dalla  giurisprudenza  di  merito  sopra
richiamata, valuta necessario sollevare la questione di  legittimita'
costituzionale dell'art. 1, comma 6, lett. b), della legge n. 3/2019,
ritenendo di non adottare  la  via  dell'interpretazione  conforme  a
Costituzione, alla luce della  posizione  tuttora  predominante,  nei
diritto  vivente,  contraria  alla  possibilita'  di   applicare   il
principio  di  non  retroattivita'  della  legge  penale  sfavorevole
qualora si verta in materia di misure alternative alla detenzione. 
    11.  Nel  caso  che  qui  occupa,  invero,  la  questione   della
applicabilita'  ad  una  condanna  relativa  a  fatti-reato  commessi
anteriormente  alla  entrata  in  vigore   della   piu'   restrittiva
disciplina introdotta dalla legge n. 3/2019 e'  certamente  rilevante
trattandosi,   nella   fattispecie,   di   domanda   di   concessione
dell'affidamento in prova al servizio sociale in rapporto a una  pena
detentiva  applicata  in  forza  di  condanna  per   fatti   commessi
anteriormente alla modifica introdotta nell'art. 4-bis, ord.  penit.,
1, comma 6, lett. b) della  legge  n.  3/2019.  Nel  caso  in  esame,
inoltre, per un verso deve escludersi - per i motivi sopra illustrati
-  la  possibilita'  di  superare  il  profilo  di   inammissibilita'
dell'istanza medesima indotta dalla preclusione di cui  al  comma  1,
art. 4-bis, ord. penit., estesa dalla legge «spazzacorrotti» anche ai
delitti per i quali il B... e' stato condannato e, per l'altro verso,
le  gia'  acquisite  risultanze  istruttorie  offrono  elementi   che
consentirebbero,  nel  merito,  di  addivenire   ad   una   pronuncia
favorevole all'interessato (eventualmente anche nei  termini  di  una
misura diversa da quella espressamente  richiesta),  considerando  la
regolare condotta tenuta  dalla  persona  nel  regime  cautelare,  il
principio  di  risarcimento  effettuato,   la   positiva   situazione
personale  sotto  il  profilo  socio-familiare   e   lavorativo,   le
prospettive  che   una   messa   alla   prova   possa   favorire   la
risocializzazione della persona piu' efficacemente di  una  eventuale
carcerazione dell'interessato. 
    12. Cio' posto in tema di rilevanza, questo Tribunale ritiene che
la questione sia anche non manifestamente infondata, sotto i  profili
che di seguito si illustrano. 
1) Illegittimita' costituzionale dell'art.  1.  comma  6,  lett.  b),
della legge 9 gennaio 2019, n. 3 per contrasto con gli  articoli  25,
comma  2,  117  Cost.,  7   CEDU   (violazione   del   principio   di
irretroattivita' della legge penale): 
      stabilisce l'art. 7, paragrafo 1, CEDU:  «Nessuno  puo'  essere
condannato per una azione o una omissione che, al momento in  cui  e'
stata commessa, non costituiva reato secondo  il  diritto  interno  o
internazionale. Parimenti, non puo' essere  inflitta  una  pena  piu'
grave di quella applicabile al momento  in  cui  il  reato  e'  stato
commesso.» Viene in evidenza, ai fini che qui interessano, il secondo
periodo  della  disposizione,  il  cui  disposto  riecheggia   quanto
stabiliscono, nell'ordinamento interno, l'art. 25 Cost., e  l'art.  2
c.p.: nessuna conseguenza  penale  afflittiva  introdotta  con  legge
successiva  puo'  incidere  sulla  vicenda  penale  scaturita   dalla
commissione di un fatto-reato commesso anteriormente. A  questo  fine
di civilta' giuridica,  baluardo  contro  possibili  abusi  da  parte
dell'autorita' statale, e', invero, istituito  il  principio  di  non
retroattivita' della «legge penale» sfavorevole. 
    Seguendo un condivisibile approccio «sostanzialistico», la  Corte
edu ha riconosciuto che istituti, pur  formalmente  non  classificati
come «penali» e inseriti nel  contesto  della  normativa  di  matrice
penitenziaria, non possono essere considerati alla  stregua  di  mere
«modalita' di esecuzione della pena» (e dunque sottratti al principio
di irretroattivita'), qualora incidano su quest'ultima in termini  di
sostanziale modificazione quantitativa ovvero qualitativa della  pena
stessa. 
    E' questo il caso delle misure alternative alla  detenzione  che,
attuando il disposto costituzionale laddove esso prefigura un sistema
in cui «le pene» devono tendere alla rieducazione del reo  (art.  27,
comma 3 Cost.), ammette la possibile diversificazione tipologica  del
trattamento  sanzionatorio,  realizzabile,  soprattutto  in   seguito
all'introduzione dell'ordinamento penitenziario del  1975,  anche  in
sede esecutiva post iudicatum. 
    E proprio lo sviluppo della fase esecutiva sotto il governo della
«giurisdizione rieducativa» amministrata da un giudice  specializzato
ha comportato il venir meno della  stessa  concezione  del  giudicato
penale quale  dato  immutabile  e  cristallizzato  al  momento  della
definitivita' della condanna, per lasciare spazio ad un modello  che,
in  vista  dell'obiettivo  della  risocializzazione   della   persona
condannata, ammette ed anzi impone  la  duttile  flessibilita'  della
pena stessa nelle tipologie piu' idonee  al  perseguimento  del  fine
costituzionalmente assegnato alla stessa. Tali  modifiche,  anche  se
attuate in forza di norme processuali o relative all'esecuzione della
pena hanno, dunque, effetti che incidono  sulla  qualita'  essenziale
della pena stessa, trasformando ad esempio una pena detentiva in  una
sanzione non detentiva. In altri termini, non si tratta gia' di  mere
«modalita' di esecuzione della pena»  bensi'  di  modifiche  tali  da
comportare una vera e propria sostituzione della  specie  della  pena
stessa, comportando una  sostanziale  decompressione  della  liberta'
personale rispetto  alla  prospettiva  della  esecuzione  della  pena
detentiva. 
    Una   eventuale   modifica   normativa   (o    giurisprudenziale)
sopravvenuta che operi in  senso  restrittivo  della  disciplina  dei
presupposti e condizioni di  accesso  alle  misure  alternative  alla
detenzione  incide,  quindi,  il  profilo   di   garanzia   «coperto»
dall'evocato art. 7 CEDU, poiche' essa viene a modificare  la  natura
stessa della  sanzione  penale  applicata,  come  gia'  sopra  si  e'
rilevato, escludendo «ora per allora» che pene relative a determinati
reati possano  essere  eseguite  con  tipologie  diverse  dalla  pena
detentiva carceraria. 
    La  giurisprudenza  costituzionale  ha,  del  resto,   da   tempo
riconosciuto  che,  a  differenza  degli  istituti  del   trattamento
penitenziario  (quali,  a  es.,  i  permessi   premio),   le   misure
alternative alla detenzione, «nell'estinguere lo status di  detenuto,
costituiscono altro status diverso e specifico rispetto a  quello  di
semplice condannato» (Corte cost., sentenza n. 188 del 1990) tale  da
sospendere o interrompere il rapporto giuridico di  esecuzione  della
pena detentiva, pur costituendo pur sempre sanzioni (negative) penali
(anche se  concedono  ampi  spazi  di  liberta')  ma  sostituendo  al
rapporto esecutivo della  pena  carceraria  altro,  diverso  rapporto
esecutivo, attinente, appunto, alla  particolare  misura  alternativa
applicata. In altri  termini,  nella  prospettiva  della  Corte,  «le
misure alternative partecipano della natura della pena,  proprio  per
il  loro  coefficiente  di  afflittivita':   esse,   pertanto,   sono
alternative non  alla  pena  in  generale  ma  alla  pena  detentiva,
trattandosi di diverse forme di penalita'» (Corte cost.  sentenza  n.
349/1993). 
    Per questa  ragione,  e'  ben  chiara  la  distinzione  tra  mere
modalita' esecutive della pena e misure alternative ad essa, al punto
che «L'Amministrazione penitenziaria puo' adottare  provvedimenti  in
ordine alle  modalita'  di  esecuzione  della  pena  (rectius:  della
detenzione), che non eccedono il sacrificio della liberta'  personale
gia' potenzialmente imposto al detenuto con la sentenza di  condanna,
e che naturalmente rimangono soggetti  ai  limiti  ed  alle  garanzie
previsti dalla Costituzione in ordine al  divieto  di  ogni  violenza
fisica e morale (art. 13, quarto comma), o di trattamenti contrari ai
senso di umanita' (art. 27, terzo comma), ed  al  diritto  di  difesa
(art. 24). 
    Ma e' certamente da escludere che misure  di  natura  sostanziale
che incidono sulla qualita' e quantita' della pena, quali quelle  che
comportano un sia pur temporaneo distacco,  totale  o  parziale,  dal
carcere (c.d. misure extramurali), e che percio' stesso modificano il
grado di privazione della liberta'  personale  imposto  al  detenuto,
possano essere adottate al di fuori dei  principi  della  riserva  di
legge  e  della  riserva  di  giurisdizione  specificamente  indicati
dall'art.  13,  secondo  comma,  della  Costituzione.»  (Corte  cost.
sentenza n. 349/1993, cit.).  Ed  ancor  piu'  eloquente,  in  questa
ottica, e' il successivo passaggio: «Vi e'  infatti  una  distinzione
sostanziale tra modalita' di  trattamento  del  detenuto  all'interno
dell'istituto penitenziario - la cui  applicazione  e'  demandata  di
regola  all'Amministrazione,  anche  se  sotto   la   vigilanza   del
magistrato di sorveglianza (v. art. 69 Ordinamento Penitenziario),  o
con possibilita' di reclamo al Tribunale  di  sorveglianza  (v.  art.
14-ter Ordinamento Penitenziario) - e misure che ammettono a forme di
espiazione della pena fuori dal carcere (previste, per  lo  piu',  al
Capo  VI  del  Titolo  I  dell'Ordinamento   Penitenziario,   "Misure
alternative alla'  detenzione":  affidamento  in  prova  al  servizio
sociale,   detenzione    domiciliare,    semiliberta',    liberazione
anticipata, licenze; ma anche l'assegnazione al lavoro  esterno  o  i
permessi premio previsti  al  Capo  III)  le  quali  sono  sempre  di
competenza dell'Autorita' Giudiziaria (v. articoli 21, 30, 30-ter, 69
e  70  dell'Ordinamento  penitenziario)  proprio   perche'   incidono
sostanzialmente sull'esecuzione della pena e, quindi,  sul  grado  di
liberta' personale del detenuto.» (Corte cost. 349/1993, cit.). 
    Appare difficile, alla luce di tale quadro, continuare a  seguire
l'affermazione  della  giurisprudenza  di  legittimita'  per  cui  si
tratterebbe, in tali ipotesi, di norme "processuali" non afferendo le
medesime ai profili di accertamento del reato e di irrogazione  della
pena, poiche' proprio di questo in effetti le disposizioni in materia
di misure alternative alla detenzione (e non solo)  si  occupano.  Si
osserva, del resto, che il leading precedent delle Sezioni Unite  del
2006 muoveva, per abbracciare la tesi della natura processuale  delle
disposizioni  penitenziarie,  anche  dalla  constatazione   che   «il
problema non risulta affrontato specificamente dalla dottrina. Ma  in
linea generale  questa  e'  propensa  a  estendere  il  principio  di
irretroattivita' delle norme penali di cui all'art. 25  Cost.,  comma
2, a tutte le disposizioni limitative dei diritti di liberta', tra le
quali  rientrano  indubbiamente  anche  quelle   che   escludono   la
sospensione della carcerazione e l'applicazione di misure alternative
alla  detenzione.  Diametralmente  opposta  e'  pero'  la   soluzione
adottata dalla costante giurisprudenza di legittimita' (...)». 
    Che la questione meriti, oggi, una approfondita riflessione  tale
da indurre un revirement, lo aveva  gia'  segnalato,  del  resto,  lo
stesso Giudice delle leggi nella sentenza n.  306  del  1993,  quando
osservava: «Circa il presupposto da cui i giudici a quibus muovono, e
cioe' che detto principio [il  principio  di  irretroattivita'  della
norma penale sfavorevole, n.d.r.] sia dettato, oltre che per la pena,
anche  per  le  disposizioni  che  ne  regolano  l'esecuzione,   puo'
astrattamente ipotizzarsi - nel caso che tale assunto,  che  potrebbe
meritare una seria riflessione, fosse riconosciuto valido  -  che  il
divieto  di  introdurre  siffatte  innovazioni  sia  fatto  risalire,
alternativamente: o al momento della  commissione  del  reato;  o  al
momento del passaggio in giudicato della sentenza di condanna;  o  al
momento dell'inizio dell'esecuzione;  o,  ancora,  al  momento  della
maturazione dei presupposti ovvero a quello della  concessione  della
misura alternativa.» In quell'occasione, tuttavia, la Corte non aveva
preso in considerazione la dedotta censura poiche' «(...) i sei  casi
descritti nelle ordinanze concernono  la  revoca  della  semiliberta'
(cui si accede dopo l'espiazione di meta' della pena)  nei  confronti
dei condannati per i delitti di cui all'art. 630  del  codice  penale
(cinque  casi)  o  all'art.  74  del  decreto  del  Presidente  della
Repubblica n. 309 del 1990, per i quali sono previsti livelli di pena
assai elevati; che la disciplina della  semiliberta'  ha  subito  nel
tempo  modificazioni  in  tema  di  preclusioni  oggettive  alla  sua
concessione; che, infine, le ordinanze di rimessione non contengono i
riferimenti  in  fatto  idonei  a  precisare  quale  fosse  la  legge
applicabile in ciascuno dei predetti momenti. Di conseguenza,  al  di
fuori dell'ipotesi in  cui  debba  farsi  riferimento  all'ultimo  di
questi, l'indagine  sul  quesito  principale  circa  l'applicabilita'
dell'art. 25, secondo comma, Cost. nella materia  in  esame,  dovendo
necessariamente muovere dalla premessa della sua sicura rilevanza nei
giudizi a quibus, non puo' essere compiuta perche' rischia di restare
astratta.»  Nella  fattispecie,  come  si  e'  sopra  illustrato,  la
rilevanza della questione e' invece concreta. 
    Nel caso in valutazione, atteso che - per le considerazioni sopra
esposte - modifiche che comportano una sostanziale modificazione  nel
grado di privazione della liberta' personale non possono considerarsi
fenomeno privo di rilievo  sotto  il  profilo  costituzionale  (Corte
cost., sent. 306  del  1993),  la  violazione  costituzionale  sembra
dunque al Collegio si concretizzi nell'assenza di una disposizione di
natura transitoria che faccia decorrere -  in  aderenza  ai  principi
iscritti negli artt. 25, comma 2, 117 Cost. e 7  CEDU  -  l'efficacia
delle  piu'  restrittive  disposizioni  introdotte,  in  un  contesto
normativo che assume natura  "sostanziale",  dalla  data  di  vigenza
della  legge  n.  3/2019,  non  applicandosi   cosi'   le   modifiche
sfavorevoli alle pene relative a fatti commessi anteriormente. 
    A  conferma  della  necessita'   costituzionale   di   una   tale
disposizione giova ricordare che il legislatore aveva introdotto  una
norma transitoria con l'art. 4 della legge 12 luglio 1991, n. 203, di
conversione  del  decreto-legge  13  maggio  1991,  n.  152,  che  ha
circoscritto   l'applicabilita'   della   norma   limitativa    della
concessione dei benefici penitenziari  per  taluni  delitti  (di  cui
all'art. 58-quater, quarto comma, della legge n.  354  del  1975)  ai
condannati per delitti commessi dopo l'entrata in vigore del predetto
decreto. Con tale disposizione, il  legislatore  sembra  aver  dunque
implicitamente   riconosciuto   la   valenza   del    principio    di
irretroattivita'  della  norma  penale  meno  favorevole  anche   con
riferimento al  regime  della  pena,  indicando  che  il  divieto  di
retroattivita' vale ogni qualvolta si voglia introdurre  un  nuovo  e
piu' sfavorevole regime. 
    Ricorda a tal proposito il Tribunale che, tutte le volte  in  cui
il legislatore non ha fatto applicazione di tale principio, e' dovuta
intervenire la Corte costituzionale reiteratamente affermando  quello
che nella  prassi  della  giurisdizione  rieducativa  viene  chiamato
«principio di non regressione per fatto incolpevole del trattamento»,
dichiarando cioe' l'illegittimita'  delle  norme  sopravvenute  nella
parte in cui esse non prevedono  che  i  benefici  in  esse  indicati
possano essere concessi nei confronti dei condannati che abbiano gia'
raggiunto  sulla  base  della  normativa  previgente  un   grado   di
rieducazione adeguato ai benefici richiesti (Corte cost. n.  79/2007;
n. 257/2006; n. 137/1999; n. 445/1997). 
    Osserva, altresi', il Tribunale quale sia l'estrema labilita' dei
confini cui per tale via il giudice delle leggi ha inteso  restituire
all'apprezzamento discrezionale della  giurisdizione  rieducativa  la
valutazione dell'avvenuto raggiungimento del «grado  di  rieducazione
adeguato ai benefici richiesti», laddove e' noto come il margine  tra
ammissibilita' dell'istanza e merito  della  decisione  ha  rischiato
nella prassi di assumere connotati di sostanziale impercettibilita'. 
2) Illegittimita' costituzionale dell'art.  1,  comma  6.  lett.  b),
della legge 9 gennaio 2019, n. 3 per contrasto con  li  articoli  25,
comma 2, 117 Cost., 7 CEDU (violazione del principio di affidamento): 
      La modifica  in  pejus  del  quadro  normativo  sostanziale  di
riferimento sembra, altresi', ledere il  "principio  di  affidamento"
tutelato dal principio di irretroattivita' in materia penale, sancito
dagli articoli  25,  comma  2,  117  Cost.,  7  CEDU.  Invero,  anche
nell'ipotesi in cui non si ritenesse dogmaticamente condivisibile  la
tesi per cui il momento della commissione del  reato  costituisce  il
momento in cui si cristallizza non solo il trattamento  sanzionatorio
dal punto di vista dell'entita' della pena che potra' essere irrogata
ma anche la qualita' tipologica  della  stessa,  la  piu'  autorevole
dottrina ha comunque affermato che  tale  "punto  fermo"  del  quadro
sanzionatorio non potrebbe comunque essere fissato oltre la data  del
passaggio  in  giudicato  della  sentenza  di  condanna,  poiche'  e'
(quantomeno) da tale passaggio formale  che  si  rende  concreta  nei
confronti del  reo  la  potesta'  punitiva  dello  Stato,  cosi'  che
lederebbe [e legittime  aspettative  del  condannato  ogni  eventuale
modifica che  rendesse  piu'  severo  il  trattamento  sanzionatorio,
aggravando in tal modo la pena stabilita  dal  giudice  in  relazione
alla condotta penalmente illecita accertata in capo al soggetto. Tale
legittimo affidamento non puo' che comprendere tanto l'an, quanto  la
tipologia, quanto ancora la dimensione  quantitativa  della  sanzione
penale che lo  Stato  promette  di  irrogare  al  colpevole  se  quel
determinato reato verra' accertato. 
    In  questa  prospettiva,  del  resto,   la   Corte   europea   ha
interpretato principio iscritto nell'art. 7 della Convenzione edu nel
senso che quest'ultimo codifichi il divieto per gli Stati di  imporre
una pena piu' grave di quella applicabile al momento in cui il  reato
e' stato commesso, secondo un criterio che identifica la "legge"  nei
contorni di "regola di giudizio accessibile e  prevedibile"  nei  cui
confronti il consociato nutre un legittimo affidamento. Con una ormai
numerosa serie di  pronunce,  la  Corte  di  Strasburgo  ha,  invero,
adottato  una  giurisprudenza   consolidata   su   tali   coordinate,
censurando   le   disposizioni   degli   ordinamenti   interni    che
introducevano ipotesi di applicazione retroattiva di pene (intese  in
senso sostanziale) piu' severe. Si allude, a titolo di esempio,  alla
sentenza Gurguchiani c. Spagna,  che  ha  affermato  l'illegittimita'
dell'espulsione, prevista  obbligatoriamente  in  sostituzione  della
pena detentiva da una nuova normativa successiva alla commissione del
fatto (laddove la legge vigente  al  momento  della  commissione  del
reato stabiliva la detta sostituzione in via meramente  eventuale  ad
opera del giudice); e alla sentenza M. c. Germania (ric. n. 19359/04)
che ha censurato l'applicazione retroattiva del  nuovo  e  piu'  duro
regime    di     durata     della     «custodia     di     sicurezza»
(Sicherungsverwahrung), misura personale che, in base  ad  una  legge
introdotta successivamente alla commissione del fatto, non  era  piu'
limitata, nel massimo, a dieci anni; e alla gia'  ricordata  sentenza
Del Rio Prada c. Spagna che ha ritenuto parte integrante dei "diritto
penale materiale" l'istituto della redencion de penas por trabajo del
diritto   spagnolo   (istituto   affine   alla   nostra   liberazione
anticipata).  Tale  arresto  europeo,  in  particolare,  afferma   il
principio che la "prevedibilita'" cui si riferisce l'art. 7 CEDU  non
riguarda soltanto la sanzione, ma anche la sua esecuzione  e  che,  a
tali fini, non e' determinante il settore ordinamentale nazionale sul
cui versante si colloca l'espiazione, se di diritto sostanziale o  di
diritto processuale. E sulla stessa linea "sostanzialista" pare,  del
resto, orientarsi la  giurisprudenza  di  legittimita'  nel  ritenere
ipotesi di palese violazione del principio dell'affidamento quando le
concrete ricadute negative previste  da  una  disposizione  normativa
conseguano  non  alla   condotta   dell'imputato/condannato,   bensi'
dipendano da fattori esterni, aleatori, del tutto sottratti alla  sua
sfera di controllo (Sez. Un. , 12 luglio 2007, n. 27614),  escludendo
- per tali motivi -  la  modifica  retroattiva  in  pejus  di  misure
cautelari (Sez.  Un.  ,  sent.  14  luglio  2011,  n.  27919,  cit.),
evidenziando che, in ordine alle norme processuali, occorre  adottare
un approccio sostanzialistico, valutandone  in  concreto  l'effettivo
impatto  sui  diritti  fondamentali  (in   primis,   sulla   liberta'
personale). 
    Il fondamentale e qui rilevante profilo che involge  il  rispetto
dell'affidamento del consociato  si  individua  nella  posizione  del
condannato, ai cui occhi  l'eventuale  condanna  per  il  fatto-reato
commesso non avrebbe comportato necessariamente una pena  carceraria,
poiche' la pena sarebbe stata sospesa (come in effetti e' avvenuto) e
il giudice  di  sorveglianza  avrebbe  potuto  applicare  una  misura
alternativa alla pena detentiva (come si sarebbe, in effetti,  potuto
in assenza della normativa piu' sfavorevole introdotta ex abrupto nel
quadro giuridico - normativo vigente al momento della commissione dei
delitti e del passaggio in giudicato della relativa  condanna):  tale
affidamento e'  stato,  tuttavia,  irrimediabilmente  travolto  dalla
immediata vigenza delle disposizioni di  cui  all'art.  1,  comma  6,
lett. b) della legge n. 3/2019. 
    La legge «Spazzacorrotti» ha, infatti, inciso  -  per  dichiarata
volonta'  dei  suoi  promotori  -   proprio   sull'inasprimento   del
trattamento sanzionatorio per i colpevoli dei delitti contro la  P.A.
ivi previsti, con il preciso intento di politica criminale di rendere
effettivo l'ordinario  ricorso  alla  pena  detentiva  carceraria  in
quelle ipotesi in  cui,  nella  normalita'  dei  casi,  i  condannati
potevano aspirare dallo status libertatis  alla  concessione  di  una
pena non detentiva. Non si tratta, quindi, di  modifiche  intervenute
sulle mere modalita' esecutive della pena detentiva (come  potrebbero
essere quelle, in ipotesi,  introdotte  per  limitare  il  numero  di
telefonate o di colloqui esterni per i corruttori), ma di una vera  e
propria trasformazione della tipologia di  pena  eseguibile  (che  da
meramente limitativa della liberta'  diventa  radicalmente  privativa
della liberta' personale), con l'obiettivo di un  inasprimento  della
sanzione stessa. 
    Alla  luce  del  quadro  costituzionale  e  convenzionale   sopra
delineato, le disposizioni della legge n.  3/2019  che  rendono  piu'
severo  il  trattamento  sanzionatorio  delle  condotte  illecite  in
materia di taluni  reati  contro  la  P.A.  si  configurano  come  un
mutamento imprevedibile e indipendente dalla" sfera di controllo  del
soggetto, tale da modificare in senso sostanziale il quadro giuridico
- normativo che il soggetto aveva di fronte a se nel momento  in  cui
si  e'  determinato  nella  sua  scelta  delinquenziale,  con   piena
consapevolezza  delle  relative   conseguenze,   cosi'   da   poterne
adeguatamente ponderare i benefici e gli svantaggi. Tra  i  benefici,
in  primo  luogo,  l'applicazione  di  una  misura  alternativa  alla
detenzione, L'estinzione della pena e delle pene accessorie una volta
espiata la pena con l'affidamento al servizio sociale,  alla  stregua
della originaria disciplina e, infine, la completa riabilitazione una
volta decorsi tre anni dall'integrale esecuzione della pena. 
    Ebbene, tutti questi punti fermi sono stati travolti dalla  legge
«Spazzacorrotti»,  che  -  "cambiando  le  carte  in  tavola"  -   ha
trasformato radicalmente la risposta sanzionatoria, prevedendo  quale
soluzione ordinaria l'esecuzione della pena in carcere, e tempi molto
piu' lunghi  per  il  conseguimento  degli  effetti  estintivi  sopra
indicati (c.d. "daspo per i correttori"), determinando un vulnus  nel
principio  di  affidamento  convenzionalmente  e   costituzionalmente
tutelato (art. 25, comma 2, 117  Cost.,  art.  7  CEDU),  di  cui  e'
titolare anche il condannato nel caso che qui occupa. 
    Sulla esigenza costituzionale di salvaguardare  il  principio  di
affidamento,  del  reato,  pare  orientarsi  anche  la  piu'  recente
elaborazione  della  Corte  costituzionale  che  -  con  una  recente
pronuncia (sentenza n. 223 del 2018),  con  una  sintesi  ermeneutica
chiaramente ispirata  all'approccio  sostanzialistico  seguito  dalla
CEDU -  ha  riconosciuto  l'estensione  dell'"ombrello  garantistico"
approntato dall'art. 25, comma 2, Cost. (incluso dunque il divieto di
applicazione retroattiva di una legge che punisca piu' severamente un
fatto   gia'   precedentemente   sanzionato)   "anche   al    diritto
sanzionatorio amministrativo, al quale pure  si  estende,  come  pure
questa Corte ha gia' in piu' occasioni riconosciuto (sentenze n.  276
del  2016  e  n.  104  del  2014),  la   fondamentale   garanzia   di
irretroattivita'  sancita  dall'art.  25,   secondo   comma,   Cost.,
interpretata anche alla luce delle indicazioni derivanti dal  diritto
internazionale  dei   diritti   umani,   e   in   particolare   della
giurisprudenza della Corte europea  dei  diritti  dell'uomo  relativa
all'art. 7  CEDU",  precisando  ancora  che  «[a]nche  rispetto  alle
sanzioni amministrative a carattere punitivo  si  impone  infatti  la
medesima esigenza, di cui tradizionalmente si fa  carico  il  sistema
penale in senso stretto,  di  non  sorprendere  la  persona  con  una
sanzione non prevedibile al momento della commissione del fatto». 
3) Illegittimita' costituzionale dell'art.  1,  comma  6.  lett.  b),
della legge 9 gennaio 2019, n. 3 per contrasto con gli articoli  3  e
27 comma 3, Cost.: 
      L'assenza, nella fattispecie, di  una  disposizione  di  natura
transitoria  limitativa  dell'efficacia   delle   disposizioni   piu'
restrittive  alle  esecuzioni  relative  a   fatti-reato   posteriori
vulnera,  inoltre,  il  principio  di  ragionevolezza  e  del  canone
rieducativo iscritto nell'art. 3 e 27, comma 3, Cost.  La  disciplina
piu' severa,  incidendo  su  esecuzioni  relative  a  fatti  commessi
anteriormente, produce,  infatti,  una  irragionevole  disparita'  di
trattamento  tra  soggetti  che  giudicati  colpevoli  dei   medesimi
delitti, abbiano visto decisa dal giudice di sorveglianza la  propria
istanza di misura alternatiVa prima  della  vigenza  della  legge  n.
3/2019 o successivamente a tale data, per mera casualita'  o  per  il
difforme  carico  dei  tribunali  di  sorveglianza   sul   territorio
nazionale che, secondo  dato  di  comune  esperienza,  vede  soggetti
correi  nel  medesimo  reato  accedere  all'esecuzione   della   pena
(detentiva o extramuraria) con tempistiche diverse dovute  appunto  a
circostanze casuali o  comunque  indipendenti  dalla  [oro  volonta',
determinando   in   modo   irrazionale    gli    esiti    processuali
indipendentemente  dal  coefficiente  di  meritevolezza  dei  singoli
condannati. Tale situazione viola, altresi', per i  medesimi  motivi,
il principio sancito dal comma 3, art. 27 Cost., nella misura in  cui
incide in senso deteriore sulla liberta' personale dei  condannati  e
sui connessi percorsi rieducativi senza alcuna  correlazione  con  un
giudizio sulla personalita' dei medesimi e sul grado di  rieducazione
da essi raggiunto (Corte cost., sent. 204/1974). 
    Invero, come ha affermato in  piu'  occasioni  il  Giudice  delle
leggi,  anche  le  misure  alternative  alla  detenzione,  in  quanti
variante tipologica delle "pene" cui si  riferisce  l'art.  27  della
Carta   fondamentale,   devono    uniformarsi    ai    principi    di
proporzionalita' e individualizzazione della pena,  cui  l'esecuzione
deve essere improntata (Corte cost., sentenze n. 50 del 1980 e n. 203
del 1991), nel senso che eguaglianza di fronte  alla  pena  significa
proporzione della medesima alle  personali  responsabilita'  ed  alle
esigenze di risposta che ne conseguono (Corte cost., sentenze n.  299
del 1992 e n. 306 del 1993). La recente  sentenza  costituzionale  n.
149/2018 - ha ribadito la prevalenza della funzione rieducativa della
pena sulle altre finalita' della stessa, attribuendole i caratteri di
«imperativo  costituzionale»,  «finalita'  ineliminabile,  che   deve
sempre essere garantita anche nei  confronti  di  autori  di  delitti
gravissimi»,  ontologicamente   incompatibile   con   previsioni   di
automatiche preclusioni applicative  delle  misure  alternative  alla
detenzione, ricavando da tale principio coronario per il  quale  vige
«il principio della non sacrificabilita' della  funzione  rieducativa
sull'altare  di  ogni  altra,  pur  legittima,  funzione  della  pena
(sentenze n. 78 del 2007, n. 257 del 2006, n. 68 del 1995, n. 306 del
1993 e n. 313 del 1990)». 
    Ne  consegue,  anche  sotto  tale  profilo,  il  contrasto  della
disposizione dell'art. 1, comma 6, lett. b) della legge n. 3/2019 con
gli evocati parametri costituzionali nella parte in  cui,  ammettendo
una  applicazione  retroattiva  delle  neointrodotte  preclusioni  in
materia di misure alternative alla detenzione relative ai delitti  in
materia  di  corruzione  anteriormente  commessi,  incide   in   modo
irragionevole sul percorso rieducativo, senza  che  tale  vulnus  sia
ricollegabile a comportamento colpevole del condannato e  senza  che,
per  tale  ragione,  sia  consentita  al  giudice  specializzato  una
valutazione individualizzata atta a verificare, nel caso concreto, la
sussistenza dei presupposti per l'applicazione delle  misure  a  piu'
alta valenza risocializzante. 
    13. La questione di costituzionalita' e' dunque,  nei  termini  e
per  i  motivi  sopra  illustrati,  rilevante  e  non  manifestamente
infondata. 
    14. Tribunale di sorveglianza ritiene, pertanto, di sollevare  la
questione di legittimita' costituzionale dell'art. 1, comma 6,  lett.
b), della legge 9 gennaio 2019, n. 3, nella parte in cui, modificando
l'art. 4-bis, comma 1, della legge 26 luglio 1975, n. 354, si applica
anche in  relazione  ai  delitti  di  cui  agli  articoli  318,  319,
319-quater e 321 c.p., commessi anteriormente all'entrata  in  vigore
della medesima legge, per contrasto con gli articoli 3, 25  comma  2,
27 comma 3, 117 Cost., art. 7 della Convenzione per  la  salvaguardia
dei diritti dell'uomo e delle liberta' fondamentali, firmata  a  Roma
il 4 novembre 1950; 
    15. Ai sensi dell'art. 23 della legge 11 marzo 1953, n. 87,  deve
essere  dichiarata  la  sospensione  del  presente  procedimento  con
immediata trasmissione degli atti alla Corte costituzionale.